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UNA DONNA FRANCESE
(UNE FEMME FRANCAISE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 29 aprile 1995
 
di Régis Wargnier, con Emmanuelle Béart, Daniel Auteuil, Gabriel Barylli (Francia, 1994)
 
Emanuelle Béart
Prendi INDOCHINE, i suoi rischi (ammirevoli), i suoi meriti (pochi) ed i suoi difetti (dilaganti), moltiplicane per dieci lo spazio, il tempo ed i presunti significati, e spiegherai tutto il grottesco (involontario) di questo inimitabile UNE FEMME FRANCAISE.

Oh, certo, è chiarissima l'intenzione (la presunzione oppure, perché non accordargliela a priori, la generosità e l'urgenza) dell'autore: mettere in scena l'autobiografica vicenda della propria madre, la donna del militare di Francia eternamente assente, o perché in una Berlino appena liberata, in Indocina, Nord Africa fino agli anni Sessanta. In una storia pubblica e privata della quale - riconosciamolo - allo spettatore di oggi già interessa a priori assai meno che all'autore. Mettere in scena il Romanzo, il Melodramma alla maniera di Douglas Sirk (rigorosamente citato, nel caso non avessimo afferrato): i tumulti dell'anima, o piuttosto quelli assai più esteticamente eccitanti dei sensi di una Darrieux (luminosa Emmanuelle Béart, certamente la solo cosa riuscita del film) e di un Gabin (laborioso Daniel Auteuil), di un genere di atmosfera, di cinema e di personaggio ormai scomparso nel realismo dominante di questi anni.

Mettere in scena: la chiave di ogni bene, e quella di ogni obbrobrio... Poiché, certo, tutto è possibile, basta averne le capacità. Fassbinder, tanto per citarne uno recente, ha insegnato come filmare ogni eccesso: del soggetto, del dialogo, della sottolineatura simbolica degli ambienti, dei colori, delle musiche. "Da sempre l'uomo è stato educato ad aver bisogno dell'amore", diceva l'autore di MARIA BRAUN, "ma non a difendersi dalle conseguenze di questo suo bisogno. E più semplice farsi amare, che amare. E di questo fatto se ne approfitta il prossimo. E la società."

Si può quindi filmare la liberazione di Berlino come vorrebbe fare Wargnier, con i falò controluce ed i superstiti con la barba di due giorni sotto le macerie, i cani randagi calcolati col misurino del technicolor. Oppure condurre la donna, il marito e l'amante a prendersi a botte in una prospettiva cosi storica e mitica - e quindi realistricamente improbabile - come quella della siriana Apamea. Basta farlo con una disciplina, un'ispirazione estetica decuplicata rispetto a quella necessaria nel tanto disprezzato piccolo realismo borghese. Ma indispensabile per sfuggirgli: per proiettarsi nel fantastico del delirio barocco. Solo allora la storia piccola delle passioni private, del desiderio più che legittimo, delle corna e di tutto ciò che volete diverrà quello che importa. E che probabilmente importava anche a Wargnier. Il riflesso di altre forme di potere e di sopraffazione: nei confronti della donna, dell'individuo, della società.

Solo allora, raccontata in un modo diverso, una storia - oltretutto vera - come quella di UNE FEMME FRANCAISE assomiglierà a qualcosa di meno ridicolo di questo incrocio fra il fumetto ed il romanzo d'appendice.


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